Meloni Bartolomeo

Dieci luglio 1944. È passato un anno: sembra un giorno.

Conobbi Bartolomeo Melom nel periodo clandestino che precedette i quarantacinque giorni. Egli frequentava la Siderocernento, che fu la nostra sede naturale di riunione fino a quando la polizia non pose fine alla consuetudine. Ospitalissimo padron di casa era Attilio Casilli, che più tardi subì prigionia e tortura, il quale mi presentò il nuovo venuto come uomo di cui si sarebbe potuto fare qualcosa.

Divenimmo presto amici: un’amicizia che aveva come fondamento una completa stima reciproca.

Aderì senza apparente entusiasmo, senza abbandonare quella sua timida riservatezza, che nascondeva il gran fuoco ch’ egli aveva nell’ anima. Constatai in breve tempo di quale amore fosse circondato. Ingegnere ferroviario, egli considerava i suoi compagni di lavoro come fratelli e questi lo ricambiavano con un affetto che raramente viene concesso ad un superiore. Non è retorica questa: è una realtà che può essere testimoniata da quasi tutti i ferrovieri del Compartimento di Venezia.

Nei quarantacinque giorni io ebbi la dimostrazione ch’ egli era veramente il primo tra i ferrovieri: il primo per elezione spontanea, naturale, non discutibile, il primo perché il migliore. Si diede subito alla formazione di una organizzazione di ferrovieri e d’ accordo con i compagni degli altri partiti formò una lista di persone che avrebbero dovuto ricoprire cariche importanti nel Compartimento. In quella lista, ch’ io stesso presentai ai dirigenti ferroviari, il suo nome non c' era e invano feci insistenza perché figurasse.

Egli non ne volle sapere. Era stato iscritto al partito fascista e questo stabiliva una incompatibilità che, secondo lui, non poteva essere superata. Invano feci distinzioni, parlai di necessità e d’ inesperienza. Fu irremovibile e volle che fra i nomi indicati figurassero in prima linea quelli di persone mai iscritte al partito.

L’ otto settembre ripiombò l’ Italia nelle tenebre. 
Egli mi fu vicino nell’ azione ch’ io intrapresi assieme ai dirigenti degli altri partiti per forzare il Comando Militare Marittimo alla resistenza contro il tedesco. L’ esito negativo non lo scosse. Degno figlio della terra di Sardegna, che in sì gran copia diede all’Italia eroici combattenti, si preparò all’ azione diretta.

Da Roma vennero disposizioni di sabotare il materiale ferroviario al fine di ostacolare la calata teutonica. Per molti dirigenti ferroviari quelle disposizioni rimasero lettera morta, non per Meloni, che incominciò a creare una fitta rete dl uomini fidati, che diede subito risultati notevolissimi: le locomotive danneggiate, i carri carichi di bottino o di materiale da guerra lanciati su binari morti e saccheggiati; gli istradamenti sbagliati, l' ostruzionismo più intenso attuato.

Ma questo non bastava ancora. Egli mi parlò lungamente di varie possibilità che gli erano offerte dall’ ufficio che ricopriva. Possedeva i profili delle linee del Compartimento Veneto, i piani delle stazioni ed altri elementi preziosi ai fini del sabotaggio ferroviario. Desiderava esser messo in relazione coi dirigenti del movimento di resistenza armata, che già si annunciava.

Nella fase preparatoria dei Comitati di Liberazione io fui nominato rappresentante dei partiti veneziani ad una riunione da tenersi a Padova, ma feci in modo di esser libero, di andar io o di mandare la persona che meglio di qualsiasi altro avrebbe potuto rappresentarci. Quando ne parlai a Meloni fu entusiasta, ma rifiutò di andar solo. Egli era un tecnico - diceva - e non aveva alcuna autorità; fra i politici si sarebbe sperduto. Andammo a Padova assieme, ma il viaggio fu senza risultati. La casa di Concetto Marchesi nella quale doveva avvenire l’ incontro era sorvegliata dalla polizia. Avvertiti in tempo, tornammo. Bisognava aspettare la riunione seguente, ma Meloni scalpitava. Far presto, far presto, altrimenti era quasi inutile. Col suo parlare calmo e pieno di riguardi sapeva convincere. Ed allora pensai ad un’altra soluzione. Era tornato dall’ esiliò Silvio Trentin, e se non erro, proprio l’otto settembre avremmo dovuto festeggiarlo nella sala di un bel palazzo veneziano. Ma l’ uomo propone e Dio dispone, e quella festa, ahimè, subì tali mutamenti che non è qui il caso cli raccontare.

Trentin dovette scomparire non appena tornato alla luce e riapparve clandestinamente alla Mira nella villa del Dott. Fortuni dove egli, già esperto dell’ analogo movimento francese, stava gettando le basi della resistenza veneta all’ invasore. Gli parlai di Meloni e delle sue possibilità; ed egli volle vederlo al più presto. Fissai un nuovo appuntamento, ma quando tornai con Meloni non lo trovai perché partito per un improvviso convegno con alcuni capi militari nella zona del Grappa. Trovai però Matter, suo alter ego, ch’ era a giorno della faccenda e che già conosceva Meloni. Il contatto era stabilito.

Quel che avvenne poi ha dell’ incredibile. Meloni subì il fascino di Trentin che subito appariva a tutti personalità veramente superiore: questi lo mise in relazione con gli altri capi della resistenza ed allora cominciò una nuova fase di lavoro. Meloni attivò una regolare corrente di prigionieri inglesi che venivano concentrati a Padova o a Mestre e portati ad Udine con la scorta di ferrovieri sicuri, da dove proseguivano per raggiungere i partigiani slavi.

In questa e nelle sue altre imprese Meloni potè contare sul patriottismo e sull’ affetto dei ferrovieri veneti. Tutti erano con lui, ma sopra tutto, con Meloni alla testa, erano per I’ Italia.

L’ lng. Rizzi che gli fu compagno di carcere e di campo di concentramento, ma sul cui ritorno ardentemente si spera, il suo fido segretario Geom. Menegazzi, il capotreno Dall’ Osso, l’ Ing. ZennariPirami, l’ Ing. Sacco, i capistazione della linea Padova - Venezia - Udine e tanti altri che io ho conosciuto solo di nome perché esaltati da lui che parlava degli altri e dimenticava sé stesso, han dato moltissimo alla causa. S’è detto che i ferrovieri italiani hanno fatto il loro dovere nella guerra di liberazione, ma io credo che i ferrovieri veneti abbiano fatto ben di più.

L’ impresa dei prigionieri inglesi era però ben lungi dell’essere la sola. Stavano nascendo le prime formazioni partigiane, ma mancavano di tutto; specialmente di armi. E Meloni cercò tutto, specialmente armi. Si diede a farne incetta ricorrendo ai suoi ferrovieri, ai parroci, alle popolazioni, ai soldati che avevano prestato servizio nelle polveriere e nei forti, e costituì depositi d’ armi e di esplosivi, nei quali aggiungeva e prelevava secondo i bisogni, tenendo contatti con capi militari e politici che al suo aiuto e molto spesso ai suoi consigli di tecnico ormai abitualmente ricorrevano.

Per avere un’idea dell’ inmensità della sua opera basta pensare che egli fu arrestato il 4 novembre. Dall’ 8 settembre erano dunque passati meno di due mesi. In così piccolo periodo solo un uomo eccezionale poteva compiere tanto lavoro.

Ci fu un delatore? Se ne fa il nome. Voglia Iddio che non sia vero. Perché se fosse, mai si sarebbe compiuto più atroce delitto contro la Patria e contro l’ Umanità. E se fosse, abbia la giustizia corso inesorabile come inesorabile fu il delitto.

L'arresto di Meloni fece tremare molti cuori, ma soltanto per la sorte del fratello. Tutti sapevano che egli non avrebbe parlato. La speranza rinacque quando si seppe che non grave risultato avevano avuto le perquisizioni operate a casa ed in ufficio. Il segretario Menegazzi aveva fatto sparire sotto il naso dei tedeschi i fogli di mappa della riviera del Brenta, sui quali erano segnate le ville occupate dai tedeschi e precipitatosi poi a casa aveva completato l’ opera mettendo il superiore in grado di negare tutti gli addebiti. 

Ma gli indizi, erano importanti. Troppo vasta l' opera perché tutto sparisse senza lasciar traccia. La libertà gli fu promessa se avesse parlato. Ma se il corpo era fragile e sofferente, l’ anima era di ferro.

Ventitre giorni a S. Maria Maggiore, due mesi a Verona, poi l’ inferno: Dakau. E il 10 luglio 1944 la morte.

La notizia mi colse impreparato. Meloni era per me più che un fratello. Non esagero dicendo ch’ egli era spesso ansioso dl trovarsi con me e ch’ io — pur con le precauzioni imposte dai miei precedenti politici — mi trovavo benissimo con lui. Con quel che aveva fatto si considerava ancora un neofita, non conosceva la presunzione, aveva il pudore che è proprio dei puri. Continuava a trattarmi come un fratello maggiore, ed era di una discrezione esemplare in quanto lo riguardava personalmente, fors’ anche perché si era rimasti d’ accordo che ci si sarebbe detto solo il necessario. Ma quel che sapevo da lui e quel che sapevo da altri amici ferrovieri era sufficente per valutare l’opera e l'uomo.

La sua morte fu un grave colpo per la causa, ma fu un grave colpo anche per me. Sperai che le prime voci fossero infondate, poi venne la conferma: Meloni non era più. 

Tanto fu atroce questa conferma che rimasi senza respiro. Ero stato io ad immetterlo nella fornace della lotta clandestina, avevo assunto io quella tremenda responsabilità.

Ed oggi che conosciamo l'infamia, gli orrori e la vergogna dei campi di morte tedeschi il dubbio ritorna. Ma se pur ho peccato, ho peccato per amor di Patria, quello stesso amor di Patria per il quale Meloni e cento e cento altri hanno incontrato il martirio. E solo per questo martirio la Patria è redenta.

Armando Gavagnin

Di lui, più delle mie modeste parole, parla la lapide che gli artisti di Venezia hanno voluto porre a suo eterno ricordo.

E più ancora della lapide, parla la storia di questa nostra lotta per la libertà, della quale egli fu primo alfiere e antico sostenitore.

Ho un ricordo di lui nitido e preciso, sebbene sbiadito da quasi dieci anni di distanza.

Ogni volta che io ho letto il libro dei “ Promessi Sposi,, mi sono soffermato a studiare ed a penetrare la profondità del saluto che Lucia diede alla sua città natale, quando dal Lago si scostò per l’ ignorata meta. “Addio monti sorgenti dalle acque...".
Confesso che mai però compresi tutta la profondità delle accorate espressioni della partente, come quando un giorno varcando le frontiere della Patria, salutai col cuore infranto la mia Italia.

I giorni della prigionia erano tremendi, avevamo già dinanzi la tetra visione di qualche cosa che doveva opprimere, che doveva infrangere la nostra fibra e quasi il nostro morale. Ma il dolore, l’ amarezza che il prigioniero prova, che l’ esule sente in cuore lasciando la sua Patria è fortemente, e vorrei dire, sovrabbondantemente confortata nel giorno in cui, spezzate le catene ed aperte le frontiere, il pellegrino si sente di nuovo figlio della libertà, si sente ancora e più fortemente figlio della Patria.

Vi confesso che questa gioia però nel giorno del mio ritorno dal campo di concentramento di Dachau non è stata piena, non è stata completa. Mancava qualche cosa al mio cuore, mancava qualche cosa alla gioia dell’animo mio. Dieci eravamo avvinti dalle stesse catene nel giorno della nostra partenza, due soltanto ritornavamo figli della libertà. Un vuoto veramente incolmabile, un vuoto incolmabile aveva lasciato nell’ animo nostro la perdita del non mai abbastanza compianto Ing. Meloni.

Conobbi il chiarissimo Ing. Meloni il 14 dicembre del!’anno 1943, quando arrestato nella mia Parrocchia, fui condotto alla sede della guardia repubblicana di Venezia.

Vidi l’ immobile figura dinanzi al tavolo del non mai abbastanza esecrato Capitano Zane; lo vidi dinanzi a quell’ uomo che andava attanagliandolo in un serrato e stringente interrogatorio e vidi quella figura serena e calma.

Da quella bocca nessuna parola ebbe ad uscire che compromettesse lui e i suoi compagni di azione. E dopo lunghi tentativi da parte dell’ interrogante il povero lng. Meloni fu rinchiuso nella camera di sicurezza ed ivi lasciato fino a tarda notte del giorno seguente.

In quella sera dopo essere stato in quella camera oscura senza cibo, da tutti abbarrdonato e dimenticato meno da voi che lo seguivate con tanto fraterno interesse, il povero ingegnere, posto in catene, fu condotto dalla sede della guardia repubblicana a S. Maria Maggiore. Eravamo dieci in catene. Eravamo affratellati dalla catena della sofferenza. Non erano soltanto i nostri polsi uniti: erano i nostri cuori che erano stati avvinti dalla catena della sofferenza, sofferenza che è cemento della letizia, cemento di fratellanza
.
Passammo alla cella di S. Maria Maggiore ed ivi il primo balsamo del conforto ci fu dato da Mons. Dell’Andrea, zelantissimo cappellano delle carceri. Avevamo l’ impressione di entrare in un carcere, di essere abbandonati, di essere dei reietti; abbianio sentito invece la mano paterna che lenisce le nostre sofferenze, abbiamo sentito il balsamo che ristora il nostro cuore. A lui la nostra gratitudine, a lui l’augurio che possa compiere con tanto zelo e tanto amore paterno la sua missione per quanti nel carcere entrano e soffrono. Ed ivi restammo per oltre due mesi e mezzo.

Ebbi un primo incontro con l’ lng. Meloni in quelle ore che sono dette di sollievo; in quell’ ora che vien data per conversare e per prendere un pò d’ aria, dopo di averne passate 23 in una cella dove l’aria e la luce difettano assai. C’incontrammo i primi giorni ed ivi scambiammo le nostre impressioni; e dico il vero, mai ho trovatp un’ anima tanto avvincente, mai ho trovato un’ anima così aperta, un’ anima così profondamente conoscitrice delle umane miserie, un’ anima che sentisse veramente il palpito di amore e di tenerezza fraterna per i sofferenti. Due mesi e mezzo passammo insieme in quel carcere. Durante i due mesi e mezzo due volte sole il chiarissimo ingegnere fu interrogato da parte della Autorità, da parte delle SS., e mi disse, soltanto poco dopo il colloquio, di essere stato interrogato per cose strettamente personali, familiari, finanziarie.

Per quello che riguardava il nostro capo d’ accusa nessuna parola, sempre avvolto nelle tenebre, sempre posto nell’ ombra, nell’ oscurità. Un giorno mentre si parlava di liberazione, mentre si credeva spuntato sull’ orizzonte della nostra vita ancora il sole della libertà, ci venne portata la triste notizia che noi eravamo trasferiti da quel carcere e destinati a meta ignota. Trapelò la notizia che eravamo destinati, essendo stati venduti dalla repubblica alle SS. tedesche, ad un campo di concentramento in Germania.

Non vi nascondo, Signori, il turbamento delI’ anima nostra perché qualche cosa già sapevamo della barbarie tedesca sopra coloro particolarmente che erano accusati di delitti politici. Ma abbiamo guardato con occhio sereno alla croce, abbiamo visto che nella croce c’ era qualcosa che veniva dall’ alto, abbiamo visto che il Signore giocava, giocava con quella che era la cattiveria umana che voleva la nostra distruzione, che voleva il nostro annientamento. E fu così che il mattino del 28 febbraio 1944 uscimmo ancora avvinti dalla stessa catena, non tanto dalle catene che legavano i nostri polsi, quanto da quelle che legavano i nostri cuori fatti adamantini di fronte alla sofferenza e al dolore e fummo portati alla stazione. E alla stazione soffrimmo indicibilmente per vederci attorniati e sghignazzati da coloro che avevano operato Il nostro tradimento; quegli alcuni nefandi uomini che ci avevano arrestato, erano venuti alla stazione per ridere, sulle nostre miserie, per ridere sul nostro dolore, e fummo schiantati. Ma quando il treno si mosse, quando già il nostro passo verso il calvario si iniziava, ci siamo sentiti fieri della nostra sofferenza, fieri della nostra croce.

Fummo portati in quel mattino del 28 febbraio nelle carceri di S. Leonardo a Verona; quindi da S. Leonardo a S. Mattia e lì noi fummo destinati a rimanere tutto il giorno al vento e alla pioggia in attesa che finalmente a notte inoltrata ci chiudessero entro una stalla insieme coi muli.

Era il primo anello di una serie di giorni tristissimi che la Divina Provvidenza per noi preparava e anche in quel giorno, a triste fortuna facemmo buon viso. La notte dovemmo passarla insieme con degli animali in un luogo immondo, dove non era possibile posare piede se non sopra la sporcizia, se non sopra l’ immondezza. E al mattino, dopo la notte passata in bianco, fummo svegliati dalle SS. e avemmo il cambio di guardia. I militi della repubblica che ci avevano accompagnato fino a Verona, ci lasciarono ed eravamo già in mano di quegli aguzzini delle SS. che ci accompagnarono fino alla porta del famigerato campo di concentramento.

Passammo per le strade con alle spalle il fucile spianato fino alla stazione di Verona e attendemmo di essere posti sul treno che ci doveva portare a Monaco. Ed infatti dopo un viaggio che non ebbe rilevanti disagi, noi arrivammo a Monaco, e da Monaco attendemmo alquanto l’ arrivo del piccolo treno che ci doveva recare a Dachau. Alla sera alle ore 8, così suonava e segnava l'orologio di quella torre, entrammo nel campo di Dachau. Ed allora sopra di noi le prime sevizie.

Fummo posti a dormire sul nudo pavimento entro il bagno in attesa che venisse per noi il primo marzo, giorno in cui iniziava la nostra vita di detenuti politici in quel campo di concentramento. E venne tosto il mattino, avendo anche in quella notte assai poco dormito.

Fummo spogliati delle nostre vesti, spogliati, depilati e disinfettati - dicevano loro - con petrolio, e all’aria aperta, a trenta gradi sotto zero, nudi, fummo costretti a correre sulla neve, fatti segno di obbrobrio e di ludibrio da parte della milizia tedesca. Al nostro dolore, alla nostra vergogna, si volle unire lo scherno da parte di quei soldati che ci chiamavano Badoglio, da parte dei compagni di prigionia che ci chiamavano fascisti. Così si iniziò la nostra prima giornata e fino a mezzogiorno noi stemmo in quell’ abbigliamento; a mezzogiorno fummo condotti, piccola schiera di dieci prigionieri cui erano stati associati altri dieci capeggiati pure da un sacerdote proveniente da Brescia, nella baracca di quarantena e qui stemmo per venti giorni in attesa di destinazione per il nuovo campo di concentramento, per il nuovo campo di lavoro. Ventun giorni di segregazione assoluta; nessun contatto con gli altri compagni di prigionia.

Chi era la forza morale della nostra piccola schiera? Era l' Ing. Meloni. lì suo corpo sembrava di giorno in giorno assottigliarsi, ma il suo spirito ingigantiva maggiormente. I giorni di prigionia veneziana avevano quasi fiaccato il suo corpo, ma egli era ancora sostenuto, pur essendo tanto gracile; era il morale che rinforzava il suo corpo, era una visione lontana di bene che egli pensava di dover compiere un giorno tornato in Patria che lo sosteneva, ma era anche una visione vicina, era la visione della sofferenza che egli accoglieva dalle mani della Provvidenza come missione, missione di bene, di personale missione di bene collettivo a beneficio della umanità.

Ed ivi stemmo per ventun giorni mentre intanto si compivano gli smistanienti, mentre già si compivano le schiere che dovevano passare da un campo all’ altro in attesa di lavoro, in attesa di destinazione a qualche comando. Ed eravamo stati destinati alle miniere di carbone dell’ Alsazia, quando venne a noi la provvidenza incontro nella persona di un santissimo uomo, il Direttore del Seminario di Praga, Mons. Giuseppe Beram, Professore di quella Università. Egli si prese a cuore la sorte di noi Sacerdoti, ma anche la sorte del buon lng. Meloni, con Il quale aveva già contratto relazione e del quale aveva stimato l’alta intelligenza e la finezza del cuore. Aveva così potuto - mediante il suo paterno interessamento - risparmiarci, a noi, la partenza e le miniere dell’ Alsazia; e fummo destinati ai lavori dei campi.

Ma sfortunatamente il buon ingegnere ebbe destinazione a Teresienstadt per la Cecoslovacchia e tosto dovette partire. Verso la fine di marzo egli era già in un altro campo di concentramento, nella Cecoslovacchia.

Dovette attendere al lavoro campestre, e ogni mattina dalla baracca dove dormiva, doveva compiere otto chilometri di strada per portarsi al campo, alla sera nuovi otto chilometri per rientrare alla baracca. Il cibo scarsissimo e mal preparato che veniva dato ai prigionieri, insieme col male che minava la sua già esile fibra, fu motivo per cui egli si sentì tosto prostrato e dopo otto giorni di lavoro, una sera tornò stanco in modo da non potere, come egli diceva, reggersi in piedi. Tornato alla baracca si pose nel suo giaciglio, prese sonno, e all’ ora dell’ appello non potè comparire sulla piazza. Si cercò il mancante e lo si trovò addormentato sopra il giaciglio. Montato in furia il capo della baracca, con un grosso nerbo di bue lo percosse a tale segno da farlo credere morto. Da quel giaciglio non si potè levare; e si giustificò allora l’ assenza del colpito, l’ assenza del battuto; soltanto allora fu giustificato all’ appello.

Ma passati alcuni giorni, mentre si vedeva ormai che veniva meno la sua esistenza, da un’anima pietosa fu deciso il ritorno a Dachau, e dopo 15 giorni dalla sua partenza, verso la metà di aprile, il buon ingegnere era di nuovo a Dachau. Non posso dirvi la letizia dell’ anima mia, quando seppi del ritorno del desideratissimo amico.

Tosto lo visitai e vidi le sue condizioni veramente pietose, veramente impressionanti. Lo raccomandai ai buoni sacerdoti di Cecoslovacchia e Austriaci, che a dire il vero si prodigarono con generosità cristiana per il bene del buon ingegnere. Medicine e cibo furono a lui somministrati, in modo che dopo 15 giorni poteva sentirsi completamente ristabilito. Con quale riconoscenza egli mi esternava i suoi sentimenti verso coloro che lo avevano aiutato e beneficato, anime buone che allora promisero un interessamento continuo anche per I’ avvenire perché la sua vita di prigioniero non fosse gravata da nuovi croci, da nuove sofferenze! Ecco infatti un buon sacerdote austriaco che si interessa perché l’ ingegnere venga assunto quale disegnatore in una fabbrica. La domanda è accettata, ma gli si sbarra la porta quando si sa che l’ ingegnere non parla correttamente la ligua tedesca. Dinanzi a questa porta che si chiude, l’anima non si abbatte, ma guarda serena alla nuova croce, alla nuova prova che il Signore gli dà.

Ma la Provvidenza non tutte le porte vuole chiuse, ed ecco allora che s’ interessa di lui il buon sacerdote polacco che verso la metà dl maggio lo accoglie in una corderia e gli assegna un posto seduto del quale l’ingegnére diceva: “ lo sono come un principe nel suo trono ". Compie questo lavoro senza tanti disagi, senza tanti sacrifici. Al mattino, a mezzogiorno e alla sera noi avevamo quotidianamente il nostro triplice incontro. E allora si parlava della Patria, si parlava della nostra missione al ritorno, si parlava di quelle che erano le condizioni del nostro paese e quando qualche notizia trapelava da una parte o dall’ altra, era ansia dell’ anima nostra potercela comunicare.

Una sera egli mi parlò del doloree mi disse:
“ Il dolore è un grande fratello, il dolore è un grande amico. lo vi ringrazio, Signore, perché sotto il peso della sofferenza mi sento rifatto, mi sento rinato. Per conto mio il dolore ha una missione di purificazione, ha una missione di luce. Perché, diceva a me, lei non ha mai parlato a me di cose spirituali? ... lo invero lo feci appunto per delicatezza verso di lui. Però dai suoi discorsi e da sue espressioni io potei conoscere la fine spiritualità della sua anima, la fine pietà del suo cuore. Una volta mi disse: “Mi sento tanto purificato, sento rinato in me, qualche cosa di quello che la mamma mia mi ha insegnato, di quello che un giorno fu frutto della mia convinzione, frutto della mia educazione cristiana. lo voglio darmi a Dio e voglio darmi in maniera generosa". Devo confessare, Signori, che fui commosso della sua bontà, fui commosso dall’ aprirsi dell’ anima del caro e grande ingegnere.

E volli prepararlo alla sua confessione e alla sua comunione pasquale. lo sento e credo che il Signore sarà contento del suo sacrificio e sarà contento della mia generosità. Ecco le grandi parole, ecco le grandi espressioni, ecco l’ atto di dedizione generosa nelle mani del Signore! lo dissi a lui: " Lei sa, ingegnere, che per il confessore e per il penitente già sono le pene designate: 25 nervate per il sacerdote che confessa, 25 per il penitente che depone nel cuore del sacerdote le sue miserie". Ed egli disse: " Sieno anche 50, meglio la grazia di Dio, meglio l’ amicizia del Signore, meglio l’ usbergo del sentirsi puro " che non la sicurezza delle 25 o 50 vergate". Fece clandestinamente nella oscurità della notte la sua confessione e la sua comunione e, piangendo, mi ebbe a dire: “ Mai tanta gioia inondò il mio cuore quanto in questo giorno in cui mi sento nuovamente stretto al mio Dio per il quale soffro e dal quale sento che grandi coforti sono per venire al mio cuore". Più volte poté ripetere la confessione e la comunione, fino al giorno della sua morte.

Ma egli sentiva il bisogno di farsi apostolo in mezzo ai compagni. La fiamma che Cristo aveva acceso nel suo cuore, non si estingueva, anzi si dilatavai. Ed eccolo apostolo tra i suoi compagni, eccolo preparare ai compagni il lavoro e godere della loro stessa letizia. Ecco aprire la strad ad altri che erano lontani, perché in Cristo trovassero la loro felicità, perché in Cristo sentissero la gioia in mezzo al dolore, in mezzo alla sofferenza.

Questa fu la sua vita durante la seconda parte del mese di maggio e nel mese di giugno.

Il giorno 2 luglio dell’ anno stesso si senti indisposto. Mi fece annunziare questa sua indisposizione e fui tosto alla sua baracca: e mi disse che una tormentosa foruncolosi lo turbava. In infermeria potei trovare qualche cosa per la sua salute.

Il giorno 3 luglio egli riprese la sua vita normale, continuò il suo lavoro. Lavorò soltanto fino a giovedì sera, quando tornato stanco dalla corderia si pose sul suo giaciglio e, poichè la febbre era altissima, passò all’ infermeria. All’infermeria lo raccomandai alla bravura del medico chirurgo, il Dott. Arko, già stretto agli italiani da forti vincoli di amicizia perché nella precedente guerra, essendo stato prigioniero, fu accolto, nascosto, nutrito e salvato dagli italiani.

Il venerdì la febbre aumentò, verso sera incominciò il delirio ed egli faceva segno che qualche cosa lo tormentava al basso ventre. Al sabato mattina lo stesso Dott. Arko disse essere necessario un atto operatorio. Dopo che l' atto operatorio fu compiuto, si riscontrò che un male tremendo aveva rovinato il suo intestino. L’ arte medica, mi disse il medico sconsolato, l’arte medica nulla può sulla fibra del povero ingegnere. Soltanto un miracolo di Dio lo può ancora salvare.

Rimase per tutto il sabato in stato preagonico e la domenica in stato agonico. Domandai di poterlo visitare. Lo vidi soltanto al giovedì, ma era proibito assolutamente l’ingresso degli estranei all’infermeria, tanto più era proibito l’ ingresso del sacerdote, il quale clandestinamente sarebbe potuto entrare per amministrare i sacramenti, il che era vietato, come si disse, sotto pena di gravi tormenti.

Il medico allora escogitò un mezzo per potermi fare entrare; ma alla domenica del 9 luglio, all’ ora che io dovevo entrare nell’ infermeria, l’ lng. Meloni non era più sul letto. Egli era già sull’ atrio arrovellato di tanti compagni di prigionia, sopra il quale era passato l’ Angelo della morte. Si era spento sereno, si era spento con l’ occhio fisso al cielo, senza proferire parola alcuna.

Vi confesso, Signori, che rimasi costernato di fronte a tanta perdita, e uscito tosto dalla infermeria, perchè non potevo più oltre fermarmi, mi aggirai intorno a quella baracca e per tutta la giornata me ne stetti lì, nella impossibilità morale di staccarmi da un tanto amico, inconsolabile nel mio cuore per una perdita tanto grave.

La notizia della morte dell’ ingegnere si diffuse per tutto il campo e fu unanime il compianto degli italiani che avevano conosciuto nell’ lng. Meloni, una persona superiore ed avevano stimato l ’ altissimo in.....

(Nel fascicolo fotocopiato in mio possesso mancano le pagine da 32 a 36).

Ricostruire la figura di Bartolomeo Meloni, così come essa appare, illuminata dalla luce della sua morte, è dolce fatica sia per chi, essendo vissuto in più o meno costante dimestichezza con lui, può fare appello ai ricordi personali, sia per chi, avendolo conosciuto quasi soltanto di nome, intende ricorrere ai suggerimenti della fantasia e del cuore guidati da dati di fatto. Nell’ un caso e nell’ altro l’ Uomo Meloni balza fuori con una sua personalità singolare e inconfondibile, matura e dignitosa, perché l’ epilogo della sua esistenza, che serve di punto di partenza per la ricostruzione della sua figura, fu quella di un uomo eccezionale.

Se è vero che il martire non s’ improvvisa, nell’ un caso e nell’ altro si arriva a scoprire le scaturigini remote di così illuminata fine.

La prima via è stata seguita dal Dott. Armando Gavagnin nella sua relazione particolareggiata sull’ attività di Bartolomeo Meloni nel periodo clandestino, e dal Sac. Giovanni Fortin nel discorso su Bartolomeo Meloni, suo compagno di prigionia, ambedue riprodotti in quest’ opuscolo commemorativo. Tale relazione e tale discorso che inavvertitamente accompagnano ogni parola con un tremito del cuore ed ogni dato di cronaca con un trasalimento dell’ animo che non vorrebbe dire quanto è costretto a dire, sono così esaurienti, anche per quello che non dicono ma che fanno indovinare, che il lettore non chiede di più.

Ciò non ostante, benché l’ ingegnere e il patriota senza macchia sia eloquentissimo in quelle pagine com’ è eloquente nel silenzio maestoso della tomba, benché inviti anche oggi più a meditare che a parlare o a scrivere, non è atto profano turbarne la pace solenne e definitiva, rompere ancora per un pò la solennità del suo silenzio, l’ impenetrabilità del suo cielo di luce per esaltarlo con l’ impeto del cuore che, più che ai dati di cronaca, s’abbandona all’ impulso prepotente dell’ ammirazione e della venerazione.

In Bartolomeo Meloni il comune modo di vedere è più portato a considerare la vittima che il vincitore, il perseguitato da un duro destino che l’ uomo sublimato e immortalato da una morte gloriosa. Ma è un errore di prospettiva che egli ci chiede di non commettere.

Solo apparentemente in lui l ’ incivile vince sul civile, l’ inumano sull’ umano, solo per un attimo un’ orda di selvaggi pare trionfi sul suo ideale e sulla sua vita; ma poi all’ occhio sapiente e penetrante delle anime abituate all’ introspezione egli appare com’ è, il debellatore e il trionfatore di quelle che Nietsche chiamò con definizione blasfema le “ belve bionde civilizzatrici ,,.

Certamente egli ha dovuto pagare a caro prezzo la sua vittoria, al prezzo della vita, ma appunto per questo, perché ha pagato il massimo prezzo, ha ottenuto la massima vittoria. Non è un paradosso, è una verità.

Noi non potremo mai dire d’ avere amato l’ idea e la Patria come lui, perché non abbiamo conosciuto come lui e come molti altri, i patimenti, le tentazioni del tradimento e del rinnegamento e, cosa più terribile di tutte, l’ angoscia di sentirci forse chiamati al dono più grande.

Per questo egli è distante, più avanti e più in alto di noi; per questo più che parlare di lui, noi dovremmo raccoglierci in un silenzioso gesto di venerazione e molto pensare.

Bartolomeo Meloni giganteggia quando, nauseato delle indegnità con cui l’ Italia fascista deturpava le bellezze patrie e fatto consapevole della necessità di agire, getta la maschera che gli avevano imposto e, superata ogni inquietudine, intraprende un’ indefessa attività clandestina per la riabilitazione della Patria; quando, pur avendo gettato l’ anima al di là di ogni rischio e affrontato impegnative responsabilità e occulti pericoli, si rifiuta di lasciarsi includere nella lista di persone, che avrebbero dovuto ricoprire cariche importanti nel Compartimento Ferroviario; quando, ammanettato, condotto in carcere e seviziato, tace i nomi dei compagni di lavoro e di gloria. Tanta forza di decisione e di equilibrio, tanta luce di dedizione e di abnegazione scaturirono in lui dalle misteriose profondità del suo animo che se è impossibile penetrare, si possono però indovinare. Forse il rivolo d’ oro che emana dall’ anima sua si rifà a una lontana sorgente. Forse sulle ginocchia auguste di sua madre, in quel vivaio di esplodenti e disciplinate energie che è la famiglia sana prima e poi la scuola e la società civile, dove la forza cieca degli istinti e degli impulsi è guidata al retto uso dell’ intelligenza, dalla volontà e dall’ autorità congiunte in superiore armonia, egli imparò l’ arte difficile dell’ autogoverno e della coerenza.

Certamente non fu abituato a considerare la vita come comoda acquiescenza a uno stato di fatto, come superba ambizione di cariche, come bene che vale più dell’ onore e dell’ amicizia e, tanto meno, come espressione di forza bruta e unico limite del proprio diritto, ma come palestra di acquisto di tutte le virtù civili in un clima di fraternità e solidarietà umana.

Tale sua educazione postulava le posizioni nette e rifuggiva da ogni atteggiamento che suonasse consenso a uno stato indegno di cose. Chi scrive ebbe occasione d’ esprimergli una volta tutta la propria ansietà di educatore nel constatare nella pedagogia di quello che fu il partito fascista certe espressioni che, sebbene lanciate là come per caso tra una congerie di precetti educativi, ne formavano la sostanza e minavano alla radice l’ educazione. Erano aforismi, primi principi indiscussi e indimostrabili che bisognava accettare senza discutere. Qualche esempio? Ecco: "Molti nemici, molto onore ,, - “ I rapporti fra i popoli sono rapporti di forza,, - “ Bombe a man, carezze col pugnal,, - “ il duce ha sempre ragione,, ecc. ecc.

Ebbene non posso dimenticare i trasalimenti della sua anima grande e semplice a tali enunciati. E ciò non perché fosse un imbelle, ma perché sapeva che il culto della forza per la forza è la suprema delle degenerazioni umane.

Solo un pessimista pensatore tedesco, Osvaldo Spengler, il profetizzatore della fine della nostra razza, poteva scrivere che’ “l’ uomo è il più perfetto degli animali da preda ,,. Ma queste sono parole nere che sottintendono sotto il padiglione celeste soltanto guerre, rivolte, distruzioni e avventure fanatiche e altrettanti inevitabili crolli determinati dalla nemesi storica che esige l’ equilibrio delle forze a garanzia dei reciproci diritti.

Ma la grandezza di Bartolomeo Meloni che brilla di luce più viva è la sua vita di carcerato in Patria, d’ internato e di esule in terra nemica. Le parole sono impari a ridire il tormento di chi si sente libero e si vede ammanettato, si sente degno cittadino e si vede esiliato. La libertà per tutti è il dono più grande, ma per alcuni è la ragione e l’ essenza della vita e quindi un bene insostituibile, perduto il quale, può sembrare che non valga più la pena di vivere. Per questo Catone che si toglie la vita a Utica desta anche oggi delle simpatie.

Ma se il togliersi la vita nelle più gravi calamità è un gesto di forza e di grandezza, non togliersela quando tutto è perduto, ma sperare ancora nell’ insperato, avere il coraggio di riservarsi ancora per un non impossibile domani di rivincita ed accettare di servire la propria causa anche nell’ ignominia del carcere e dell’ esilio e della tortura sia pure convinti che non si sopravviverà che nell’ immortalità del propriò spirito e dell’ idea, questo è eroismo, è santità. E di questo eroismo, di questa santità io vedo brillare la fronte radiosa di Bartolomeo Meloni, l’ esule che si sente morire ad ogni passo che l’ allontana dalla sua Patria sotto il peso del proprio tragico destino, il proscritto che lungo la via del calvario filosofeggia in un carro bestiame con i muli perché ritenuto indegno di compagnia meno ignobile.

Il cuore gli doveva terribilmente dolere, specialmente quando la mente ci si fermava a meditare sulle sue ferite, ma l’ anima, se vuole, può essere più forte del suo dolore. Per questo né il ricordo angoscioso degli affetti familiari perduti, delle amicizie fedeli lontane, della carriera brillante spezzata, che egli aveva giocato con illimitata prodigalità nell’ interesse della Patria, né la visione dolorosa del presente né quella fosca dell’ avvenire senza certezze e senza speranze, valse a fargli perdere il controllo di sé, l’ equilibrio delle sue forze morali o a sommuovere l’ unità interiore della sua coscienza. La grandezza della sua anima fu pari alla profondità della crisi sofferta.

Nella bolgia infernale di Dachau, una delle macchie più tristi e degradanti d’ Europa, invece di abbattersi e morire vinto prima dal dolore che dalla morte, la sua anima grande dimentica quasi il piccolo grumo di carne in cui è avvolta, si fa sempre più trasparente e impara di nuovo la suprema delle leggi che interessano la vita, la legge dell’ amore e della misericordia per aver dimenticato la quale gli uomini sono diventati fra loro lupi feroci e strumento soltanto di tortura.

Là comprende definitivamente che per poter risorgere sopra un panorama di macerie in senso umano e democratico e guarire dalla più grave malattia dello spirito, l’ uomo deve riprendere ad amare e a rispettare nel proprio simile la sua immagine. Solo allora i mattatoi di creature, i campi punitivi, i lazzaretti, le camere a gas, le fosse crematorie, le spedizioni punitive, i lavori coatti scompariranno dal linguaggio umano.

Forse a tale riscoperta contribuirono alcune anime pietose che con rischi personali seppero in lui ravvivare la fede nel bene sopito o spento nei più, ma non scomparso dalla terra: primi fra tutti i tre buoni sacerdoti, l’ uno austriaco, l’ altro polacco, il terzo italiano e il Dott. Arko che gli furono larghi di affettuose cure e premure, di promesse e mantenimenti.

Ma più di tutti a lui verberato a sangue e lasciato quasi morto perché, sfinito dai patimenti e dai disagi, si era addormentato sul suo giaciglio e non aveva potuto comparire all'appello, deve essersi fatto incontro il più bello e il più buono dei figli dell'uomo, il divino Martire del Golgota, Gesù, anche Lui verberato e piagato solo perchè aveva insegnato agli uomini l'amore, anche Lui dimenticato e incompreso: e dall'incontro nel momento del dolore che non ha nome e che non consente ribellioni rifolgoreggiò la fede e l' amore, acquistò nuova luce il suo stesso martirio. Capì allora che soffrire perché l'ideale suo non morisse, sentirsi l'anima attanagliata dal dolore perché altri dolori fossero risparmiati ai propri fratelli e all'umanità tutta era una grande missione. E l' accettò definitivamente con commossa fierezza.

Ormai con lui era Colui che nei recessi misteriosi della sua anima bella non aveva mai perduto, il Cristo, il più santo dei figli di donna, l' Uomo - Dio che ricordava d'aver imparato ad amare sulle ginocchia della madre, come confessa candidamente al sacerdote italiano, suo compagno di prigionia.

Non fa quindi meraviglia se per confessarsi e comunicarsi affronta prudentemente ma quasi spavaldamente con il suo degno sacerdote ed amico il pericolo di subire venticinque nervate, la pena stabilita per i cosiddetti reati religiosi; se poi si fa apostolo d'amore e di dedizione e angelo di  consolazione fra i suoi compagni di sventura, come attesta un testimone oculare. Il buon lievito non può non lievitare la massa.

La malattia e la morte avvenuta il 10 luglio 1944 lo colgono in un atteggiamento di grandezza e di magnanimità che è la fine degli spiriti augusti.

Ora Bartolomeo Meloni non è più, ma il suo spirito vive in un mondo dai più vasti e luminosi orizzonti nel quale attende anche noi. Ci resta di lui la sua eredità migliore, il suo martirio per il quale, congiunto a quello di molti altri, siamo fatti salvi. In lui ciascuno di noi ha sofferto ed espiato, da lui tutti abbiamo meritato. Per questo egli è più vicino a noi di quanto noi non lo siamo a lui e ci dice, additandoci le ceneri del suo martirio che ancora fumigano: siate degni di me.

Mario Angelini