pasolini sulla tomba di gramsciTornato a Ghilarza dal carcere, Francesco Gramsci non ebbe, soprattutto nei primi tempi, vita facile. Usciva pochissimo evitando di incontrare la gente: l'umiliazione per la disavventura patita gli pesava, né aveva un qualsiasi lavoro. L'impossibilità di accesso ai pubblici impieghi (solo più tardi sarà riabilitato) era di grave impedimento alla reintegrazione nella vita attiva, perché al di fuori di quegli uffici le occasioni di lavoro mancavano. Aveva continuato a vivere dunque da segregato. I ghilarzesi però guardavano a lui con simpatia. Spietati con chiunque si fosse meritato il discredito, nondimeno avvertivano che nei confronti di Francesco Gramsci, dato lo sfondo politico della sua disgrazia, si era un po' troppo calcata la mano, e il sospetto di ingiustizia li spingeva a manifestare solidarietà per chi l'aveva sofferta. Lo ammisero al Circolo di lettura, ambiente chiuso e con soci rigorosamente selezionati.

Dopo che fu costituita una mutua per l'assicurazione del bestiame bovino, gliene affidarono la segreteria. Venne la riabilitazione e, favorito dai suoi studi universitari in legge, potè fare il patrocinante in conciliatura. Volentieri i ghilarzesi gli fornivano lavoro. Era una buona pasta. La sua compagnia allietava. Di esuberanza meridionale, intelligente, umano, era il compagno che a tutti piaceva, la sera, avere al tavolo del quintiglio. Otterrà infine un posto di amanuense al catasto, e con i magri proventi di questo impiego tirerà avanti per tutta la vita.

Naturalmente in famiglia, dopo il suo ritorno, l'aria era cambiata. Continuavano ad essere assillanti, però, i problemi pratici: prima per la forzata inattività del signor Ciccillo e poi per la modestia dei suoi guadagni, appena trovato il lavoro. Gennaro, andato a Torino per il servizio di leva, non poteva più dare l'aiuto di prima. Anche Mario era fuori casa: nel 1904, dopo aver finito le elementari, era entrato nel seminario di Oristano. Dei maschi, portava soldi a casa, dunque, il solo Antonio. Carlo, bambino ancora, frequentava le prime classi elementari. Poi qualcosa riuscivano a guadagnare Peppina Marcias con lavori di cucito e Grazietta ed Emma sferruzzando su calze, maglie e sciarpe che vendevano. Solo verso la fine del 1905, Francesco e Peppina, fatti i conti, conclusero che, magari con nuovi sacrifici, avrebbero potuto mandare Antonio al ginnasio di Santulussurgiu. Nei due anni trascorsi a Ghilarza lontano dai banchi scolastici, il ragazzo s'era preparato da sé e con qualche lezione privata. Ora, vicino ai quindici anni, pensava di potersi iscrivere direttamente alla terza ginnasiale. Nell'istituto non gli fecero difficoltà: era una scuola comunale, non di stato. Così Antonio riprese gli studi regolari, anche se, come vedremo, di regolarità ben relativa, date le precarie condizioni di quel ginnasio.

Santulussurgiu dista da Ghilarza diciotto chilometri. C'è una corona stretta di monti, e sui bordi del catino sta il paese, uguale, per disposizione, a qualcosa di costruito sulla bocca di un vulcano. Verso metà secolo, due possidenti, Pietro Paolo Carta Ledda e Giovanni Andrea Meloni, avevano lasciato in anni diversi i loro beni agli Scolopi, all'espressa condizione che i congregati se ne servissero per istituire in paese « le scuole di latinità fino alla rettorica inclusiva ». Nell'ipotesi di scioglimento dell'ordine, l'amministrazione dei lasciti era affidata, per lo stesso fine, al Consiglio comunale. In effetti, nel 1866, gli Scolopi dovettero andarsene: cominciò quell'anno la lunga controversia tra il Comune di Santulussurgiu e il demanio statale, liquidatore dell'asse ecclesiastico, finché la vertenza non venne chiusa da un decreto regio nel 1901. Il ginnasio comunale aprì i battenti sùbito dopo. In quali condizioni?

Antonio Gramsci lo ricorda come « un ginnasio in verità molto scalcinato », « un piccolo ginnasio in cui tre sedicenti professori sbrigavano, con molta faccia tosta, tutto l'insegnamento delle cinque classi ». Andando a consultare i registri dove sono verbalizzate le sedute del consiglio d'amministrazione dell'istituto, si scopre che il giudizio non pecca di eccessiva severità, ed anzi molte sono le testimonianze dirette anche più gravi. Ecco ad esempio ciò che fu costretto a rilevare il presidente teologo Francesco Porcu nella seduta del 4 marzo 1905 (Gramsci sarebbe venuto a Santulussurgiu alcuni mesi dopo): « Due degli insegnanti di questo ginnasio sono sforniti dei titoli che li abilitino all'insegnamento. Per due anni consecutivi, vennero i medesimi mantenuti nel posto loro conferito, nella speranza che essi pensassero a regolarizzare la loro posizione. Non essendo ciò avvenuto », concludeva il presidente, « è il caso di bandire ora il concorso pel prossimo venturo anno scolastico 1905-6 » (il primo anno di frequenza di Gramsci). In realtà il concorso venne bandito, ma la desiderata partecipazione di molti buoni insegnanti non ci fu, e, per giunta, alcuni di quelli finiti ai primi posti della graduatoria disertarono. Il futuro segretario della Camera del lavoro di Sassari, Massimo Stara Serra, destinato alla classe di Gramsci, presentò le dimissioni dopo appena un paio di settimane. Chi avrebbe dovuto subentrargli, il milanese Alfonso Franchini, chiese per venire a Santulussurgiu un anticipo. Non venne ugualmente. E solo il 7 febbraio, ad anno scolastico ben avanzato, Antonio cominciò ad avere lezioni di materie letterarie da due supplenti. Poi un ingegnere insegnava le materie scientifiche e la lingua francese. Per tutt'e tre gli anni del ginnasio, Antonio avrà questi insegnanti. Con quale profitto sappiamo da una lettera dal carcere: « Io avevo spiccatissime tendenze per le scienze esatte e per la matematica, da ragazzo. Le ho perdute durante gli studi ginnasiali, perché non ho avuto insegnanti che valessero un poco più di un fico secco ». Era stato del resto un consigliere d'amministrazione della scuola, il dottor Giampietro Meloni, a denunciare nella seduta del 21 settembre 1906 (Gramsci aveva già frequentato la terza ginnasiale): « I risultati finora ottenuti da questo ginnasio sono stati purtroppo sempre meschinissimi ». Il consigliere giudicava addirittura vantaggiosa per tutti la chiusura dell'istituto e arrivò a proporre in votazione un ordine del giorno così formulato: « L'amministrazione, riconosciuto che il ginnasio non funzionò mai bene... delibera di chiudere per tre o quattro anni ». L'ordine del giorno fu respinto, e in un modo o nell'altro, a strappi e a mozzichi, Antonio Gramsci potè comunque frequentare sino alla quinta ginnasiale. L'ultimo anno, a fine dicembre le lezioni non erano ancora cominciate. I professori, restii a venirsene a Santulussurgiu, domandavano un rinvio dopo l'altro, e il presidente, obbligato a subire, non sapeva più a che santo votarsi. Infine, ricaviamo sempre dal verbale, concluse:

Si dovrà far venire i professori anche in ritardo... Gli alunni ne avranno sempre un vantaggio, giacché per loro sarebbe ormai impossibile avere l'ammissione in altri istituti. Del resto, altre volte questo ginnasio si è aperto in gennaio o in febbraio, e non potrebbe sembrare strano se oggi per qualche settimana mancano i professori.

La poca puntualità e la dubbia scienza dei professori non erano evidentemente le condizioni ideali perché Antonio Gramsci recuperasse il tempo perduto a Ghilarza nei due anni dopo la licenza elementare. E ancora, ad aggravare il disagio degli studenti, specie di quelli in non buona salute, come Antonio, contribuiva l'insalubrità dei locali dove le lezioni si svolgevano. Il ginnasio comunale Carta-Meloni, sappiamo dal consigliere d'amministrazione dottor Giomaria Manca, si era trasferito dagli « ambienti malsani del convento degli ex Minori Osservanti » ad una casa d'affitto; e qui l'istituto continuava ad essere in condizioni « deplorevoli », « collocato in ambienti malsani e alquanto ristretti e non sufficienti ai bisogni della scuola ».

Poi non è che Antonio, uscendo di scuola, trovasse a casa un ambiente migliore. Abitava nel rione Sa Murighessa, pensionante d'una contadina di mezza età, Giulia Obinu, che era stata domestica del medico del paese: « Pagavo cinque lire mensili per l'alloggio, la biancheria del letto e la cucinatura della molto frugale mensa ». Questa Giulia Obinu « aveva una vecchia madre un po' scema, ma non pazza, che appunto era la mia cuoca e governante, la quale ogni mattina, quando mi rivedeva, mi domandava chi ero e come mai avevo dormito in casa loro eccetera ». A parte lo svanimento della vecchia, l'aria non doveva essere molto allegra, in questa casa, e ciò per il caratterino della ex domestica, impuntata a sbarazzarsi della madre: « Voleva che il Municipio la inviasse a sue spese nel Manicomio provinciale e perciò la trattava in modo così aspro e scellerato da vedere di costringerla a commettere qualche grave eccesso per aver modo di affermarne la pericolosità. La vecchia sempre diceva alla figlia che le parlava col lei secondo il costume: Dammi del tu, e trattami bene! ».

Capitava abbastanza di frequente che Antonio, frastornato dalle scenate, se ne andasse a studiare in casa d'amici. Riusciva simpatico a tutti. Il ragionier Marco Massidda, suo compagno di banco, ricorda: « Era un giovane tranquillo e di buon cuore ed era felice di aiutare i compagni. È stato sempre il primo della classe in tutte le materie, e nei componimenti era meraviglioso » (ma, a proposito dei componimenti d'allora, è forse l'affetto a influenzare il giudizio).

Antonio veniva a Santulussurgiu il lunedì mattina su un carrozzone con quattro cavalli, due tra le stanghe e due liberi dietro per il cambio a metà percorso; tornava a Ghilarza il sabato, qualche volta a piedi, e magari con rischio, essendo quella zona, allora non meno d'oggi, teatro d'operazione di banditi. Vengono a svernarci i pastori delle Barbagie, e c'è tra Santulussurgiu e Ghilarza un'area di traffico degli abigeatari dai pascoli di pianura del Campidano oristanese su verso Bòrore. Mai Gramsci, ad ogni modo, ebbe fastidi, a parte l'avventura che egli stesso ricorderà in una lettera a Tania:

Ti voglio raccontare un episodio quasi natalizio della mia fanciullezza, che ti divertirà e ti darà un tratto caratteristico della vita dalle mie parti. ...Con un altro ragazzo, per guadagnare ventiquattro ore in famiglia, ci mettemmo in strada a piedi il dopopranzo del 23 dicembre invece di aspettare la diligenza del mattino seguente. Cammina cammina, eravamo a circa metà viaggio, in un posto completamente deserto e solitario; a sinistra, un centinaio di metri dalla strada, si allungava una fila di pioppi con delle boscaglie di lentischi. Ci spararono un primo colpo di fucile in alto sulla testa; la pallottola fischiò ad una decina di metri in alto. Credemmo a un colpo casuale e continuammo tranquilli. Un secondo e un terzo colpo più bassi ci avvertirono sùbito che eravamo proprio presi di mira e allora ci buttammo nella cunetta, rimanendo appiattati un pezzo. Quando provammo a sollevarci, un altro colpo e così per circa due ore con una dozzina di colpi che ci inseguivano, mentre ci allontanavamo strisciando, ogni volta che tentavamo di ritornare sulla strada. Certamente era una comitiva di buontemponi che voleva divertirsi a spaventarci, ma che bello scherzo, eh? Arrivammo a casa a notte buia, discretamente stanchi e infangati e non raccontammo la storia a nessuno, per non spaventare la famiglia, ma non ci spaventammo gran che, perché alle prossime vacanze di carnevale il viaggio a piedi fu ripetuto senza incidenti di sorta...

A Ghilarza i sabati di Antonio si aprivano regolarmente con un po' di feste, un rimprovero materno e una lavata di testa da parte del padre.

Il rimprovero era per l'uso fatto a Santulussurgiu delle provviste settimanali. Di continuo si veniva a sapere in famiglia che Nino, desiderando comprare libri e giornali, vendeva un po' delle sue scorte (pasta, olio, formaggio e simili) a gente del luogo. Questo la mamma non riusciva a perdonarglielo. Chissà in quali condizioni, non si stancava mai di ripetergli, si sarebbe ridotto, lui così malaticcio, a non nutrirsi in modo conveniente.

Le lavate di testa erano per certa stampa sovversiva che Francesco Gramsci, inorridito, vedeva tra le mani del figlio. Quei giornali e quegli opuscoli venivano da Torino. Gennaro, già avviato a simpatizzare per le nuove idee quando a Ghilarza lavorava nel catasto con i giovani tecnici arrivati da regioni progredite, faceva adesso il soldato nella città più rossa d'Italia; e con il fervore di tutti i neofiti, via via che la sua adesione al socialismo diventava più convinta, era indotto a cercar proseliti un po' dappertutto, e naturalmente anche in famiglia. Antonio, il cui gusto per la lettura era cresciuto con gli anni, i giornali e gli opuscoli mandati da Gennaro li chiedeva sùbito, appena arrivato a casa il sabato sera. Di qua le dispute con il padre. Tentava di cavarsela celiando. « È proprio vero », gli diceva, « che discendi dai Borboni ». Francesco aveva, non casualmente, il nome dell'ultimo re delle Due Sicilie, Francesco II. Era nato a Gaeta nel marzo del 1860, poco prima che l'esercito italiano la cingesse d'assedio, e il colonnello della gendarmeria borbonica Gennaro Gramsci, suo padre, era lì a difendere accanitamente l'ultimo presidio dei Borboni contro le truppe del generale Cialdini1. Raccontavano in famiglia che, durante l'assedio di Gaeta, nonna Teresa Gonzales, avendo Francesco di pochi mesi in braccio, fuggì dalla città assediata verso Formia, traversando a piedi le linee del Cialdini. A parte la formazione familiare, il conservatorismo di Francesco Gramsci discendeva anche da altre circostanze. Suo fratello Nicolino era stato a Caserta istruttore di Vittorio Emanuele III, e lui stesso un giorno lo aveva conosciuto. Mai più avrebbe dimenticato l'emozione provata sentendosi chiamare per nome e avendo la mano stretta dall'augusto erede al trono. Aveva in casa la fotografia di un cavallo: era il purosangue dato in dono dal futuro re d'Italia a Nicolino. Quella fotografia suscitava in lui orgoglio e pensieri di rispetto per la dinastia sovrana. Figurarsi lo sbigottimento da cui era preso nel vedere i suoi giovani figli disposti a lasciarsi intossicare dalla stampa sovversiva. Si deve anche aggiungere che allora esporsi con idee socialiste significava, al minimo, avere una scheda in questura. E il signor Ciccillo, scottato dagli anni passati in carcere per cose delle quali probabilmente nessuno si sarebbe occupato se non ci fosse stata di mezzo la politica, aveva assai poca voglia di rivedere in casa lucerne di carabinieri e baffi di poliziotti a causa dei figli sovversivi. La sua autorità paterna era però in crisi, dopo la disavventura giudiziaria. Per evitare le discussioni, Antonio chiese al postino che l'« Avanti! » e il resto del materiale inviato da Gennaro gli venissero consegnati personalmente, di nascosto dal padre, e di politica in casa si parlò sempre meno.

Se ne riparlò, ma di nascosto, dopo il ritorno di Gennaro, che intanto, finito il servizio di leva, aveva ripreso il suo lavoro al catasto. La famiglia era nuovamente tutta unita. Mario, pur sapendo di dare un grosso dispiacere alla mamma, aveva lasciato la tonaca di seminarista. Non se la sentiva di continuare in quegli studi. « Voglio sposarmi » diceva. « Io l'idea di farmi prete non ce l'ho. Inutile continuare. Mandateci Nino in seminario, casomai. Lui alle ragazze non ci pensa e il prete può farlo ».

Nino andò a Oristano a prendersi la licenza ginnasiale. Era l'estate del 1908; aveva diciassette anni e mezzo. Non poteva certo aspettarsi, dopo i due anni di preparazione privata a Ghilarza e gli avventurosi anni ginnasiali a Santulussurgiu, un esito particolarmente brillante. In luglio, due materie, matematica e scienze, neanche le diede. L'esame nella terza materia insegnata a Santulussurgiu dall'ingegnere, il francese, si risolse in una catastrofe: il voto fu tre. Riscosse invece voti tranquilli in tutto il resto (darà a settembre, e sarà promosso, il solo francese e le due materie rinviate). Prese dunque a luglio sei nello scritto d'italiano e sette nell'orale, sei nelle due versioni di latino e sette nell'orale, sette in geografia e, cosa pacifica, otto in storia. Ben da parecchio, le sue letture fuori dai libri scolastici erano in prevalenza orientate alla storia. Ricorderà la sua passione di ragazzo in una lettera al figlio Delio: « Io penso che la storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età, perché riguarda gli uomini viventi, e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si riuniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi, non può non piacerti più di ogni altra cosa ».

___________

1 « Mio nonno », scriverà Gramsci, « era proprio colonnello della gendarmeria borbonica e probabilmente fu tra quelli che arrestarono lo Spaventa antiborbonico e fautore di Carlo Alberto ».

In: GIUSEPPE FIORI, Vita di Antonio Gramsci, Capitolo quinto, Universale Laterza, IV Edizione, Bari, 1973, pp. 42 - 49.